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giovedì , 21 Novembre 2024

La tenuta dei Balcani occidentali alla prova della guerra in Ucraina

11.10.2022 – 12.12 – La guerra tra Mosca e Kiev fuoriesce dal limes ucraino e infiamma i Balcani occidentali. L’agitazione in Bosnia-Erzegovina e le tensioni montanti tra Serbia e Kosovo sono il pretesto per Mosca per un potenziale allargamento del fronte d’attrito con gli Stati Uniti. Proprio l’assenza di un approccio strategico politicamente definito da parte di Usa e Unione Europea – con lo stallo nel processo di adesione di Serbia, Montenegro e Albania –, nonché la manifesta difficoltà di queste comunità nel darsi una statualità effettiva, sono il contesto ottimale per il proliferare dell’influenza russa e cinese.
Tra le contendenti, se la Cina gioca oggi la carta degli investimenti per aprirsi uno spazio alternativo alle rotte settentrionali della via della seta, paralizzata dalla guerra in Europa, la Russia è invece l’attore protagonista nei Balcani da almeno due secoli. In termini di soft-power, Mosca fa leva sui diffusi sentimenti panslavisti e sull’elemento dell’ortodossia religiosa per consolidare la propria autorevolezza nella regione. Gli obiettivi del Cremlino riflettono l’assetto difensivo trasversale della politica estera russa, mirando innanzitutto a influenzare la narrazione pubblica locale mediante un approccio securitario che vuole destabilizzare gli Stati più o meno falliti dell’area, frenando l’espansione della Nato e dell’Ue.

Mosca vuole imporsi come interlocutore di Washington in un quadrante che, per quanto periferico nella strategia americana – sempre più rivolta verso l’Asia –, riveste una non indifferente rilevanza per la sicurezza dell’Europa occidentale tutta. Si vuole indurre la superpotenza a stelle e strisce ad ammorbidire il pugno duro in aree dove gli interessi russi sono invece vitali: in Ucraina, nel Mar Nero e nel Caucaso. Nel futuro prossimo anche in Asia centrale, dove il Kazakistan sta lentamente abbandonando l’orbita della Federazione.

Nel dettaglio, nella Bosnia-Erzegovina uscita dagli accordi di Dayton del 1995 cova, mai realmente sopita, l’insoddisfazione dei serbi di Bosnia, partner minoritario della maggioranza musulmana, una miccia che può facilmente portare alla detonazione della fragile entità confederale. L’esponente serbo della presidenza tripartita Dodik aveva già proposto un referendum per l’indipendenza della Repubblica Srpska nel 2006. Oggi, i parlamentari serbo-bosniaci alzano ulteriormente la sfida politica approvando un progetto di legge che prevede l’istituzione di un sistema giudiziario parallelo a quello centrale. Sarebbero proprio la guerra in Ucraina e la necessità di rivendicare una posizione neutrale tra mosca e Kiev a riportare in auge le rivendicazioni secessioniste. L’ipotesi è che nel caso in cui i russi riuscissero davvero a entrare e Kiev e a imporvi un governo fantoccio, la Repubblica Srpska dichiarerebbe l’indipendenza, a conferma di come le iniziative dei serbo-bosniaci sono legate a doppio filo all’assetto di Mosca.

L’ideale della Grande Serbia resta il fulcro attorno al quale ruotano le ambizioni geopolitiche di Belgrado e amici, ma se i serbi di Bosnia hanno poco da perdere, la Serbia deve bilanciare i suoi progetti di lungo termine con i più immediati interessi nazionali. In questa fase d’instabilità generalizzata, farsi trascinare in una crisi dai facili scivoloni militari potrebbe rivelarsi fatale, perché il coinvolgimento diretto nella crisi bosniaca minerebbe le fondamenta di una strategia multivettoriale, isolando economicamente la Serbia e vincolandola al pilastro russo come unico riferimento.

Laddove la risposta europea alla crisi ucraina è la differenziazione degli approvvigionamenti, Belgrado fatica a muoversi nella stessa direzione. Se è vero che la Serbia è l’unico paese dei Balcani a non aver aderito alla Risoluzione ONU sulle sanzioni da applicare alla Russia, preferendo stringere, anzi, ancora di più i legami con il Cremlino con l’accordo del 5 maggio scorso sul rinnovo del contratto per la fornitura di gas a prezzo agevolato per tre anni, è anche perché il Paese è profondamente dipendente da Mosca nel settore energetico, con la russa Gazprom detiene le quote di maggioranza dell’industria petrolifera serba Nafta Industija Srbije. Inoltre, la Federazione resta senza dubbio il principale fornitore di armamenti. Negli ultimi anni, però, Belgrado ha ampliato il ventaglio delle opzioni, aprendosi alle importazioni da Cina, Regno Unito e Turchia. Nell’immediato futuro, questa preferenza potrebbe essere ulteriormente consolidata dalla non brillante performance degli armamenti russi in Ucraina. Gli Investimenti esteri diretti russi hanno inoltre un peso particolarmente rilevante in Bosnia, dove costituiscono l’8% del PIL. Sempre in Bosnia-Erzegovina, circa il 39% del fatturato aziendale totale è nelle mani di società a capitale russo. Per via di questa sensibilità, dall’inizio della guerra non sono mancate nel Paese manifestazioni di sostegno a Mosca, sorte spontaneamente in seno alla popolazione. Questo ha portato l’attenzione della comunità internazionale sulla Serbia, considerata appunto canale preferenziale attraverso cui l’instabilità Ucraina può infiltrarsi nel resto della regione.

Merita attenzione anche il caso del Kosovo, che a maggio ha presentato ufficialmente la domanda di adesione al Consiglio d’Europa e, insieme, ha richiesto l’installazione di una base NATO sul proprio territorio. La richiesta si spiega col timore che la Russia possa minacciare la difficile unità kosovara con il pretesto di proteggere le popolazioni serbe presenti sul territorio, stessa motivazione adoperata per giustificare la mobilitazione in Donbas.

È di questo mese, tra l’altro, l’intesa sulla politica estera firmata dai governi di Serbia e Russia. “Dall’inizio della guerra l’Ue è stata molto chiara con i Paesi candidati all’adesione, come la Serbia, sul fatto che le relazioni con la Russia non possono andare avanti come se non fossero state compiute atrocità”, ha ammonito il portavoce della Commissione. Invece, Belgrado ha firmato un accordo di consultazione reciproca della durata di due anni.
Il revanscismo serpeggia in Serbia proprio come per Mosca l’invasione dell’Ucraina è uno sforzo necessario per proteggere i cittadini che fanno riferimento al “mondo russo”. Il “Russkiy Mir” di Putin è esattamente una copia di quello che i nazionalisti serbi ancora chiamano “Grande Serbia”, continuando a pagare lo scotto negli anni Novanta.

Qui come in Russia, si tratta di passare da un approccio focalizzato sull’isteria della sicurezza a una politica che stimoli nuove strategie di governance. Il fallimento delle narrative imperiali testimonia come si debba passare dallo state building violento allo state re-founding, altrimenti anche le scelte tecniche di questa o quella potenza internazionale nella regione rischiano di alimentare esecutivi senza legittimità e senza continuità storica.

di Arianna Francesca Brasca

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