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Donbass, l’Occidente condanna Putin. E gli ucraini?

22.02.2022 – 11.14 – Con il riconoscimento da parte della Russia di Vladimir Putin, ieri sera, delle due autoproclamate repubbliche separatiste ucraine di Donetsk e Luhansk (la nota questione del Donbass, regione che la Russia vuole sotto la propria influenza), il difficile processo di pace nella regione avviato dopo l’intervento russo in Crimea è definitivamente sepolto, e bisogna ricominciare da capo. Enorme la delusione già espressa da Emmanuel Macron e Olaf Scholz, la coppia franco-tedesca (di fatto) alla guida dell’UE: per ben due volte in pochi giorni il cancelliere tedesco, che aveva annunciato segnali di apertura, è stato smentito dai fatti, e lo stesso si può dire per Macron, dopo le telefonate “persino fino alle due di notte” (così Putin nel suo discorso di oggi al consiglio di sicurezza russo) e la prospettiva, annunciata questa mattina, di un vertice straordinario fra la Russia, l’UE e gli Stati Uniti che ora rimarrà con ogni probabilità in predicato. L’orologio della storia di pace europea torna al 1983, l’ultimo periodo in cui una crisi di queste proporzioni (seppur senza conflitto convenzionale e carri armati, ma con le dita sulla chiave di lancio dei missili strategici) si era effettivamente prospettata; l’epoca di Ronald Reagan, in cui l’Unione Sovietica era per il loquace presidente USA l’ “impero del male”, e degli Stati Uniti e delle loro intenzioni oltre la Cortina di Ferro di allora si capiva molto poco se non che facevano, ai russi, paura. Il blocco occidentale ha più volte messo in guardia la Russia in merito al riconoscimento delle regioni separatiste, avvertendo che questo avrebbe forzato la diplomazia a un ruolo di secondo piano; già da giorni però la Duma, il parlamento russo, aveva chiesto a Putin di fare questo passaggio, e che venisse dimenticato per strada su pressione degli Stati Uniti di Biden era altamente improbabile, persino irrealistico.

L’Europa, in questo momento, ha paura: dire di essere nuovamente al 1945, alla seconda Guerra Mondiale (della quale i Millennials e i nativi digitali sanno del resto poco o nulla: né l’ultimo grande conflitto, né il suo lascito, viene più di tanto approfondito a scuola o è parte del loro bagaglio o gli interessa) è con ogni probabilità un’esagerazione (del resto la spinta mediatica dei “falchi”, e del Regno Unito in particolare, in questi giorni è stata già elevatissima: perlomeno nei modi fra le dichiarazioni di Liz Truss, ministro degli Esteri di Boris Johnson, e di Vladimir Putin, risulta quasi più facile dare del pacifista al secondo). Però un rischio molto grande di grave destabilizzazione dell’Europa stessa, già provata dagli oltre due anni di restrizioni dovute al Coronavirus, c’è: ignorarlo non si può. Una guerra in Europa vorrebbe dire perlomeno l’aggravamento della già seria crisi economica post pandemia, il congelamento di molte iniziative di ripresa, una fortissima crisi energetica e un dramma umanitario di grandi proporzioni. Vladimir Putin (che, vale la pena di ricordarlo, non è solo: può far conto sull’appoggio della Cina, verso la quale è stata primariamente l’UE stessa, fra una contraddizione, una ragione giusta e l’un l’altro errore o sottovalutazione, a spingerlo) ha dichiarato di credere che l’ingresso dell’Ucraina nella NATO sia già stato deciso da tempo, nonostante le rassicurazioni francesi e tedesche, e che le preoccupazioni della Russia in tema di sicurezza dei propri confini siano state completamente ignorate. Questo, alla fine – l’accoglimento o meno di Kiev nell’Alleanza Atlantica – resta il punto chiave: la Russia ritiene che dal 1991 a oggi la NATO abbia di fatto mancato alle garanzie date sia esplicitamente che nei patti segreti sottoscritti fra stati dopo la caduta del muro di Berlino, estendendosi su pressione degli USA fino al confine russo stesso, a dispetto della clausola che prevede l’accettazione di un nuovo stato nella NATO solo se porta effettivo vantaggio alla sicurezza reciproca degli altri membri e non per sola scelta politica (e ci si può chiedere quale effettivo vantaggio in termini di sicurezza l’ingresso degli stati baltici abbia portato, o dell’Ucraina già in una guerra mai conclusasi potrebbe portare all’Europa, se non in termini di risorse naturali ed economiche; che però sono un tema diverso e interessano anche alla Russia). Documenti anglosassoni desecretati e pubblicati da “Der Spiegel”, quotidiano tedesco, dimostrerebbero che i russi non hanno torto su questo punto, e che quello che definiscono “accerchiamento” sia per davvero avvenuto a dispetto delle garanzie date e sfruttando la debolezza dell’Unione Sovietica in disfacimento:“Ora siamo nel mirino dei missili NATO”, dice Putin, ed è fattuale, per quanto la Russia, pur indebolita rispetto a quarant’anni fa e non in grado di vincere in uno scontro militare diretto con la NATO, ne abbia a sufficienza, di missili (peraltro di nuovissima generazione), per ricambiare e far tabula rasa di casa nostra. “I paesi membri della NATO decidono chi entra, non certo Mosca”, dice Jens Stoltenberg, ex primo ministro di centrosinistra della Norvegia e segretario generale dell’Alleanza dal 2014; un “falco” (così come altrettanto “falco” pare Enrico Letta oggi nella richiesta di convocare le Camere), e si può dire senza tema di smentita che i cittadini dei paesi membri poco sappiano, ormai da diversi anni, delle logiche che muovono queste decisioni, e poco, su di esse, siano stati chiamati ad esprimersi. La guerra (o meglio, la “difesa”: qualsiasi azione di guerra, a ponente del centro Europa, dal 1990 e comprese le bombe su Belgrado è ormai una “missione di pace”, perché di dir “guerra” ci si vergogna, anche se guerra è) rarissimamente nella storia è stata questione di popolo, e oggi lo è meno che meno.

E in Ucraina? Che si dice, come si vive ciò che sta accadendo? Per trovare qualche informazione più approfondita occorre staccarsi dai media occidentali, andare verso chi ci osserva dall’esterno e da più lontano, e rivolgersi a oriente, alla stampa araba, a quella coreana, giapponese e dell’India. E non è facile, considerata la difficoltà con le lingue e la necessità di masticare almeno un poco l’inglese per poter leggere le traduzioni. Solo il venti per cento dei cittadini dell’Ucraina riterrebbe veritiere le informazioni provenienti dalla stampa occidentale e verosimile un’invasione da parte dei russi, secondo Al Jazeera, che riporta i risultati di un recente sondaggio svolto a Kiev e nella regione circostante dall’istituto indipendente Gorshenin; la maggioranza di chi ci vive, semplicemente, non crede che Putin, nonostante i 150mila soldati pronti al confine secondo le stime occidentali, stia per invadere e che il conflitto sia inevitabile. Di quel venti per cento che invece ritiene possibile una guerra, solo il 4,4 per cento è già certo che ci sarà: il 62,5 per cento non crede che l’invasione possa avvenire nel prossimo futuro. Secondo Korea Economic, quotidiano asiatico, (della crisi parla anche, principalmente in termini economici e di possibile ricaduta sul mercato, Korea Herald), una parte rilevante dei 44 milioni di cittadini ucraini considera il proprio paese come una pedina in un grande gioco geopolitico fra Europa, Russia e Stati Uniti, gioco nel quale la Russia cercherebbe di ottenere un risultato di prestigio con la pressione militare e gli Stati Uniti sarebbero ben contenti di assecondarlo per distrarre l’attenzione dai problemi di casa propria, come il calo di popolarità di Biden e gli assalti di Trump, e consentire azioni speculative in borsa. Se la Russia non piace agli ucraini, quindi, gli Stati uniti non piacciono altrettanto, e non c’è fiducia nell’Occidente; alle migliaia di soldati ucraini che si stanno preparando a difendere il proprio paese, la prospettiva di un conflitto appare come una minaccia, ma non una certezza, e poco vedono di diverso fra l’oggi e una situazione che si sta trascinando dal 2014, e per quanto riguarda il supporto della NATO si pensa che alla fine non ci sarà. All’interno di questo terribile quadretto, la Russia starebbe ottenendo grandi vantaggi grazie alla confusione creatasi e all’incertezza che serpeggia fra gli stati europei: delle sanzioni, a Vladimir Putin sembra importar poco, anche perché di fatto quelle post 2014 non hanno indebolito la Russia nel modo che molti si aspettavano ma hanno finito anzi, in alcuni settori produttivi, per rinforzarla. Risuona forte l’accusa di fine gennaio rivolta proprio all’Occidente da Volodymyr Zelenskyy, presidente ucraino, di “voler causare il panico dicendo che domani ci sarà la guerra: quanto costa al nostro paese?”. Al quale erano seguite accuse ai media statunitensi (non a quelli russi) di “disseminare fake news basate su rapporti del Pentagono e della Casa Bianca”. Ciascuna delle due parti, quindi – Russia e NATO, dove NATO vuol dire Stati Uniti e questo per l’Europa è un dilemma che si trascina da tempo – starebbe giocando a proprio vantaggio, alle spese dell’Ucraina. E il dramma umano di chi ha già paura, e lascia l’Ucraina stessa, inizia a emergere: primi fra tutti, gli oligarchi e i più ricchi fra gli uomini d’affari, che nelle ultime due settimane, fra voli charter affittati apposta e jet privati, se ne sono andati di gran carriera. In Friuli Venezia Giulia ci sono circa 5mila e seicento ucraini, poco meno del 5 per cento della popolazione regionale e a testimonianza del conflitto di otto anni fa; i residenti provenienti dalla Federazione Russa sono invece molti meno, poco più di novecento.

[r.s.]

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