28.03.2022 – 11.30 – Nella prima parte di questo articolo, abbiamo visto che durante le attività sportive e nel rispetto delle regole, se facciamo male a qualcuno siamo giustificati e non possiamo essere condannati penalmente. Ciò perché esiste il principio del “rischio consentito”, che viene accettato da chi pratica quel determinato sport.
Adesso, esaminiamo un caso concreto. La conosci la regola del “tackle”? Accade nel gioco del calcio: si chiama così l’intervento, in scivolata, con cui un giocatore cerca di sottrarre la palla a un avversario che ne è in possesso. Questa azione è molto rischiosa perché, mentre il giocatore scivola sull’erba, se non si impossessa del pallone rischia di finire sulle gambe dell’avversario. E fargli male. Secondo la regola sportiva, se col tackle colpisci il giocatore, viene ammonito. Se tenti il tackle alle spalle del giocatore, vieni direttamente espulso. E questo nell’ambito sportivo. E se colpisci il giocatore e gli fai male, mandandolo all’ospedale? Hai violato la regola sportiva e sei stato punito, ma la tua responsabilità potrebbe essere maggiore. O no? Quali sono i limiti del “rischio consentito”?
Accade in Toscana: durante una partita di calcetto amatoriale a cinque, un giocatore è in possesso di palla quando un avversario, in scivolata, cerca maldestramente di sottrargli il pallone. L’esito dell’azione è una “frattura scomposta pluriframmentaria del terzo distale della riva con diastasi dei monconi ossei e plurime rime fratturate che coinvolgevano la superficie articolare”. Non so cosa voglia dire, ma deve fare malissimo. La diagnosi prosegue per alcune righe e il giocatore che ha commesso il fallo viene condannato penalmente per il reato di lesioni personali colpose (art. 590 Codice penale). L’azione di gioco lascia i confini del campetto di calcio ed entra nella realtà ordinaria, dove l’azione fallosa viene giudicata e condannata.
Ma il giocatore condannato non ci sta. È vero, non ha rispettato le regole del “tackle”, vietato nel calcetto amatoriale. È vero, ha sbagliato l’azione di gioco finendo in scivolata sulle gambe dell’avversario. È vero, gli ha causato un danno. Ma, tutto sommato, si ritiene innocente. La frattura rientrerebbe nel “rischio consentito”: se è praticabile l’azione di “tackle”, può anche essere sbagliata. Giocando a calcio, accetto che vengano compiute nei miei confronti tutte le azioni tipiche di quello sport e, trattandosi di un’attività umana, accetto anche che vengano compiute in modo errato. Dunque, se il mio avversario sbaglia in buona fede, se non lo fa apposta, il mio avversario può spaccarmi una gamba senza commettere alcun reato, senza essere colpevole. O no?
Condannato in due successivi gradi di giudizio, l’imputato si rivolge infine alla Corte di Cassazione che entra “a gamba tesa” sulla questione. Il problema è sottile e delicato. Se do un pungo durante un incontro di pugilato, non sono colpevole. Se do un pungo durante una partita di pallacanestro, lo sono di certo. E se invece causo un danno al mio avversario mentre gioco correttamente, ma superando il limite che il regolamento sportivo ha tracciato? In effetti, l’illecito sportivo che abbia causato delle lesioni non coincide necessariamente con l’illecito penale. Cerchiamo di comprendere meglio analizzando le precedenti decisioni della Corte di Cassazione. Il calcio o la gomitata inferti a gioco fermo vengono sistematicamente condannati penalmente in quanto estranei al “rischio consentito”: sono aggressioni fisiche volontarie estranee alla dinamica sportiva. Invece, se durante una rilevante competizione calcistica, nel tentativo di interrompere il contropiede della squadra avversaria, si procura una frattura a un avversario pur intendendo intervenire sulla palla, ma mal calcolando la tempistica dell’azione, l’imputato viene assolto.
I giudici, nel decidere questi casi, hanno applicato il seguente principio: se la violazione della regola sportiva è lo sviluppo di un’azione destinata al raggiungimento del risultato sportivo, anche se provoca una lesione all’avversario, e purché la lesione non sia stata compiuta volontariamente, non c’è alcuna responsabilità penale. La gamba è rotta, il giocatore è ammonito, ma la sua responsabilità resta circoscritta all’area di gioco. Ovviamente, non è sempre così: se la violazione della regola è stata voluta “con cieca indifferenza per l’altrui integrità fisica o, addirittura, con volontaria accettazione del rischio di pregiudicarla, allora, in caso di lesioni personali, si entra nell’area del penalmente rilevante”, con conseguente responsabilità e condanna di chi abbia causato le lesioni.
Non è l’entità del danno a far stabilire se l’azione illecita nello sport è tale anche per il diritto penale. È invece necessario stabilire se l’azione sportiva è stata compiuta potendosi prevedere il suo esito infausto. Se commetti un fallo prevedendo di poter danneggiare un avversario o se, per ottenere un risultato di gioco, esageri nel compiere una determinata azione provocando lesioni, allora, e solo allora, sei penalmente colpevole.
Torniamo sul nostro campetto di calcetto amatoriale: il gesto atletico della scivolata (tackle), permesso nel calcio professionale, è invece vietato nel calcetto a cinque, peraltro svolto amatorialmente. La violazione del regolamento sportivo è chiara ma, dal punto di vista della responsabilità penale, la valutazione da compiere è un’altra: dobbiamo chiederci se era prevedibile che quell’azione, ancorché non consentita dal regolamento, avrebbe causato all’avversario una lesione, e ciò indipendentemente dalla sua gravità. Così ragionando, la Corte di Cassazione annulla le precedenti decisioni e rinvia la causa affinché venga nuovamente decisa.
Se pratico uno sport di contatto, sono ragionevolmente consapevole che posso subire conseguenze fisiche spiacevoli. Questa consapevolezza, delineata dalle regole sportive, corrisponde al “rischio consentito” e alla conseguente non punibilità penale di chi abbia causato un danno fisico all’avversario. (Cass. n. 3284/22)
di Guendal Cecovini Amigoni