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Kool Koor a Verona: “Macro Micro Megastructures”, l’estetica del fuori campo

18.05.2022 – 08.10 – Ciò che accade contemplando l’opera di Kool Koor, artista newyorkese di fama internazionale, è un sentimento di “disperata resistenza verso ogni sistema riduttivo” (cit. Roland Barthes) che lo inquadri in un qualsivoglia filone artistico. Da un inizio di carriera che lo colloca tra i grandi della Street Art ad un allontanamento progressivo verso una forma di espressione estremamente personale, in cui delle origini mantiene solo una visione intermittente di intimi frammenti passeggeri in cui il Mondo diventa la tela su cui imprimere i propri pensieri. Ma in Kool Koor il Mondo è un Mondo Altro, un concatenarsi di universi interconnessi imbevuti di suggestioni che rilasciano “nuove vedute di metropoli quasi “ultradimensionali” che consentono, allo spettatore, di viaggiare in geografie simultanee, parallele, collaterali, altrimenti impossibili da intercettare”. Inaugurata sabato 30 aprile nello spazio Arena Studio d’Arte di Verona, dei galleristi Luca Cinquetti e Roberto Mazzacurati, la personale e site specific mostra dell’artista MACRO MICRO MEGASTRUCTURES, curata dal critico d’arte Luca Cantore D’Amore, sarà aperta al pubblico fino ad ottobre 2022. Un viaggio immersivo e totalizzante nella città di Giulietta e Romeo che ha visto coinvolte più voci di cui abbiamo voluto ascoltare il vissuto: quella di Kool Koor, di Luca Cinquetti e di Luca Cantore D’Amore.

KooL Koor: “sto aprendo una porta… esplorate e godetevi il viaggio”

Se dovessi tornare indietro nel tempo, e ripensare all’energia di allora, cosa ti ha spinto a scegliere la scrittura e la Street Art come forma di espressione artistica?

“Allora, guardando indietro, la cosa che mi ha spinto a diventare un artista dei graffiti è che a 12 anni ho realizzato che stava accadendo qualcosa che era più grande di me. Riguardava la libertà d’espressione e avere l’audacia di fare ciò di cui che eri cosciente che non si dovesse fare in pubblico. Non ha a che fare con il fatto che fosse visto come vandalismo o essere un cattivo ragazzo o qualcosa del genere, era più una riflessione sull’esistenza e la coesistenza all’interno di un universo composto da tante voci e opinioni. Ciò mi ha dato l’opportunità di esprimermi pubblicamente e lasciare che la mia arte fosse veramente libera.”

Come ti fa sentire oggi essere considerato uno dei grandi nomi della Street Art? Tra te e artisti come Basquiat e Haring c’è mai stata una relazione di amicizia e di condivisone di un pensiero creativo? Com’era il fermento artistico di New York negli anni ’80? Cosa pensi sia cambiato da allora?

“È come se fosse ieri, praticamente l’unica cosa che è cambiata è che ho molti più racconti e molta più esperienza, ma mi sento ancora come se avessi 18 o 19 anni e scoprissi l’intero mondo dell’arte esplorando le tante idee che ho nella testa. Ovviamente mi lusinga, ma non mi considero un pioniere, un leader o niente del genere, sono “solo un altro mattone nel muro” (cit. Pink Floyd) che sono riuscito tenere insieme e andare avanti negli anni. Ad ogni modo comprendo il mio ruolo nella storia, perciò mi sono prefissato di condividere il più possibile con i giovani creativi. Riguardo la condivisione con i colleghi e amici artisti, si tratta di qualcosa che ai tempi era all’ordine del giorno. Semplicemente parlavamo della vita che conoscevamo. Non ci si fermava ad analizzare il mondo dell’arte cercando di fare dei piani, perché ognuno faceva le proprie cose in modo libero e creativo. Questo è un terreno fertile dove tutto può succedere e hai l’opportunità di esprimere liberamente te stesso senza troppa premeditazione.”

Raccontami come è nato il tuo nome KooL KooR?

“Il nome Koor deriva dal gioco degli scacchi. La Torre in inglese è chiamata “rook” e per me la Torre era un pezzo degli scacchi interessante perché si muove ad angoli retti ed è un oggetto architettonico. Perciò mi è piaciuta l’idea di averlo come nome d’arte, ma non volevo fosse troppo ovvio, così ho preso la K e la R e le ho scambiate di posto in modo che si leggesse KooR, e in questo modo avevo un nome che non aveva nessuno. Gli ho dato un’accezione filosofica che significa che quando nella vita guardi le cose da un altro punto di vista spesso le capisci meglio. Kool è invece affiorato quando, nei primi tempi, registravo musica perché ero un MC e facevo il dj solo per divertimento. Non mi sono mai esibito né niente del genere, facevo musica con gli amici nel South Bronx nei primi anni ’80. Mi sono ritrovato in uno studio di registrazione in Belgio a registrare un album nel 1990 e volevo un nome d’arte in modo da non essere solo Koor sul palco, così mi è venuta in mente la parola Kool, come altri performer nella cultura Hip-Hop, che avevano la parola Kool prima del proprio nome. Poco dopo ho deciso di tenere Kool assieme a Koor.”

Dopo aver guardato le tue opere, mi è successa una cosa stranissima, ho sentito la necessità di chiudere gli occhi e guardarle da “dentro”. Le immagini hanno iniziato a muoversi dentro di me proiettandomi in una forma di meditazione, in cui i caratteri della tua scrittura si avvicendavano nel venire avanti come se mi invitassero a fare un salto, un salto quantico verso altre dimensioni. C’è qualcosa di molto spirituale in ogni tuo lavoro, di estrema consapevolezza. Un invito a fare parte del tutto e a non aver paura di essere anche qualcosa di diverso. Raccontami…

“È molto interessante l’esperienza che hai avuto perché è esattamente l’emozione che cerco di suscitare, spingere le persone che guardano la mia arte a lasciarsi andare e viaggiare internamente. Trasmettere l’idea che ciò che stai guardando è molto strana ma anche molto familiare. Più propriamente meditativa. Tutto ciò è collegato alla mia convinzione personale che non sto raffigurando qualcosa di fantastico, in realtà sto dipingendo qualcosa che esiste altrove, può essere un ricordo di una vita passata o un viaggio nel tempo. Voglio aprire quella porta che permette a tutti di essere liberi.”

Nelle forme, nei colori, nella tua scrittura automatica che ti connette con l’ALTRO e non ti lascia quasi il tempo di respirare perché ti costringe ad andare oltre, ci sono tantissimi richiami ai grandi filoni della mistica da quella cinese, passando per quella vedica, fino ad arrivare a quella azteca. Come se fossero architetture archetipiche dell’anima.

“Sono un esploratore. Mi piace viaggiare e assorbire ciò che mi accade attorno. Sono affascinato sia dalle civiltà antiche e dalle loro megastrutture architettoniche, simbolismo, sia dalle forme di linguaggio e comunicazione antiche e moderne. Mi sembrano tutte connesse, quindi ciò che cerco di trasmettere attraverso la mia arte è che siamo tutti connessi. Tutto è collegato, non ci sono incidenti. Tutto è esattamente come dovrebbe essere. Perché, al netto di ciò che cerchiamo di pianificare… il piano generale si manifesta sempre.”

Hai deciso di immergerti totalmente in Verona per quasi due mesi per creare le opere in loco di “MACRO MICRO MEGASTRUCTURES”, quali sono gli stimoli che la città, le persone, e la galleria a livello di energia pensi abbiano influito sulle tue composizioni? Trovo ci siano degli elementi che richiamino alla multiculturalità della città ma non so spiegarti il perché.

“Senza volerlo l’opera riflette la città di Verona, le varie strutture architettoniche appena fuori dallo studio e dalla galleria come quelle nel centro storico. Il processo del disegno e della pittura è spontaneo. La sorgente del materiale è conservata in una banca dati chiusa nella mia testa. Quando la porta è aperta non ne controllo il contenuto, io incanalo solamente il flusso.”

Se pensi all’Italia e agli Stati Uniti, in che modo influiscono nel tuo pensiero creativo?

“Il vecchio detto “sei il prodotto del tuo ambiente” è molto vero. Se avessi dipinto questi quadri a New York trasmetterebbero una diversa sensazione se messi a confronto con i quadri ai quali ho dato vita a Verona per ovvie ragioni. Quello che osservo quando cammino per le strade di New York non è lo stesso che vedo quando cammino per le strade di Verona. Angoli e forme sono simili ma l’aria che respiri è diversa, i suoni dell’ambiente sono così differenti. Così anche lo spettatore percepisce questa connessione mentre guarda le opere.”

Siamo esseri, per nostra natura, in continuo movimento e trasformazione. Come è ora Kool Koor dopo questa esperienza totalizzante? E quale il messaggio di quest’Opera Totale.

“Siamo realmente in costante movimento e trasformazione. Dopo questa esperienza mi sento un po’ più in là e riesco ad anticipare di qualche passo dove voglio andare, non vedo l’ora di vivere la prossima avventura. Il messaggio che voglio lanciare è questo: non c’è inizio e non c’è fine… siate liberi… l’interpretazione di ognuno è unica e valida allo stesso modo. Sto aprendo una porta… esplorate e godetevi il viaggio.”

Luca Cinquetti: “vedere ed essere partecipe a tutto il processo è stato incredibile”

Rispetto alla tipologia di artisti che scegliete per le vostre esposizioni come si inserisce la figura di Kool Koor?

“Come galleria abbiamo fatto una prima mostra dedicata a questo gruppo di graffitisti newyorkesi, che si può identificare come il nucleo originario, 5 o 6 anni fa qui a Verona. È stata una mostra molto importante perché, al di là del successo che ha avuto, ci ha aperto delle porte ad un collezionismo estero di appassionati di questo genere, ma soprattutto abbiamo iniziato a collaborare con grossi musei internazionali che si occupano di esporre questa corrente. Da allora pur non dedicandoci esclusivamente alla Street Art o Graffitismo, perché sarebbe forse impossibile portare avanti solo una linea così integralista, abbiamo continuato a seguirli e quindi anche Kool Koor. Un paio di anni fa, durante una nostra vendita ad un museo francese lo abbiamo conosciuto di persona mentre stava esponendo in un museo a Marsiglia. E da lì è nata questa idea di fare questa mostra in Verona. Poi l’anno scorso è stato qui da noi per una settimana in cui ha avuto modo di visitare la città e gli spazi della galleria, e ha subito pensato ad una installazione immersiva dedicata al nostro spazio; quindi, da quel momento abbiamo iniziato a studiare nel concreto la mostra. Dopodiché circa un paio di mesi fa, si parla di inizio marzo, è arrivato in Italia e ha cominciato a dipingere in loco tutte le opere che fanno parte dell’esposizione.”

La nuova galleria, che avete aperto nel durante il periodo del lockdown con ampi spazi con un forte accento di architettura industriale, pensi siano stati motivo di ispirazione per Kool Koor?

“Assolutamente sì. Lui è entusiasta di questo progetto perché mai come in questo caso ha avuto carta bianca per poter creare diverse opere non convenzionali che vanno da opere monumentali, altre che reagiscono a determinati punti di luce, o lavori fatti su determinate superfici mai sperimentate da lui come possono essere i plexiglass. Dopo aver visto la città ed il contesto industriale attorno alla galleria, è nata l’idea da parte dell’artista di portare avanti il tema che lui ha sempre investigato dell’architettura delle micro e macrostrutture. Il fatto di non avergli imposto dei limiti a livello di creazione, che potevano essere dettate da scelte commerciali, è ciò che gli ha permesso di esprimere liberamente il principio che sta alla base delle sue creazioni che è quello di “andare oltre”, di superamento di barriere siano esse spaziali o psicologiche.”

Come è stata per te questa esperienza di questi due mesi immersivi a contatto quotidiano con Kool Koor e la sua creatività?

“Come figlio d’arte, la passione di mio padre anche se ero molto piccolo, mi è stata sicuramente trasmessa e questo periodo vissuto a stretto contatto con Kool Koor è un qualcosa che mi porterò dentro per sempre. Perché stare a contatto con un artista e conoscerlo quasi a livello di amicizia, ascoltando i racconti del suo vissuto con il gruppo di artisti come Basquiat e Haring che hanno fatto la storia della Street Art in una città come New York, o sentirlo parlare del suo vivere l’arte e dei suoi progetti è stato ed è un arricchimento personale incommensurabile. Questa esperienza, avendogli preso uno studio in cui poter lavorare in tutto questo periodo, l’abbiamo condivisa anche con i collezionisti e appassionati che hanno potuto conoscere l’artista e vederlo all’opera, ed è stata un’esperienza immersiva anche per loro. Anche perché lui è un uomo molto sensibile e ama condividere il suo messaggio. Di fatto abbiamo organizzato diversi incontri educativi e culturali anche con le scuole. Sia noi come galleria, sia Kool Koor ci teniamo molto a divulgare ciò che l’Arte porta dentro di sé come messaggio, affinché non diventi solo un discorso estetico e rinchiuso su sé stesso. È un uomo alla mano e dalla spiccata umanità con cui è facile dialogare ed instaurare un rapporto empatico.

Quello che ho imparato da Kool Koor è che è un professionista di altissimo livello, non lascia nulla al caso e si immerge totalmente nel progetto in cui sta lavorando fino all’ultimo istante, fino a che la sua missione non è stata portata a termine. Viene totalmente assorbito e prosciugato dal progetto e questo per me è stato altamente educativo. Ci sono dei lavori nella mostra che sono stati difficili da realizzare, e vedere come lui li aveva già visti nella sua mente prima ancora di farli e di come, nonostante le difficoltà, sia riuscito a realizzarli così come le aveva visti, questo per me rimane un mistero. Un affascinante mistero. Vedere ed essere partecipe a tutto il processo è stato incredibile. Porta avanti la tematica di questi mondi galattici. Immagina universi paralleli. Nulla vieta che queste strutture, che in questo mondo appaiono come un qualcosa di ingegneristico, in un altro rappresentino un elemento naturale. Quello che si respira è una connessione totale tra le opere, la galleria e l’ambiente esterno. È qualcosa percepito da chiunque. Si respira una connessione galattica e spaziale che non è solo una percezione ma è qualcosa di reale. Molte delle sue forme sono collegate alla natura quindi a livello subconscio ci connettono.”

Luca Cantore D’Amore: “sono scenari che fluttuano in un enigma di sospensione.”

Raccontami di questa tua esperienza con Kool Koor e dei testi che stai preparando per il catalogo

“Il catalogo è appena terminato e questa cosa crea un paradosso vorticoso, perché la finitezza del catalogo stride con l’infinitezza delle visioni di Kool Koor. Nel senso che lui è uno a cui è chiaro ed evidente che il nostro mondo non basta. E quindi ne crea di nuovi, ma non solo crea nuovi mondi, crea nuovi universi attraverso degli ingranaggi che, lui ha nominato Macro Micro-Mega Structures (Macro e micro-mega strutture), che sono corrispondenti a quelle nostre sensazioni, capacità sentimentali di creare nuovi cosmi dentro cui rifugiarci. Quando noi abbiamo a cha fare con l’alienante disperazione del nostro mondo, con la finitudine di ciò che ci circonda ecco che l’immaginazione, il desiderio, la fantasia ci corrono in soccorso per addentarci dentro nuove prospettive che possono durare un attimo o eternamente. Momenti in movimento di cui non ne capiamo le dimensioni ben precise, può essere una cosa veramente molto grande o veramente molto piccola, così come noi possiamo essere veramente molto grandi o veramente molto piccoli al loro cospetto, purché ci sia una capacità immersiva. Capacità immersiva che non solo è quella della visione della composizione che lui realizza sulle sue tele, ma è anche poi il concept della mostra a cui poi abbiamo dato vita. Perché all’interno della galleria siamo totalmente catapultati, siamo immersi, siamo in un continuum all’interno della costellazione che è quella dell’estetica della composizione che Kool Koor crea.”

Attraverso la sua scrittura automatica che quasi mi aggrediva sono stata catapultata verso dimensioni atemporali, come se la sua scrittura segno-simbolo fosse ponte verso qualcosa che ci porta aldilà

“Questo ha a che fare con due aspetti che ho voluto a sottolineare. Uno è quello della sospensione e l’altro è quello del tema dell’oltre. Dove per sospensione s’intende una visione a-temporale e a-spaziale dei suoi spazi, perché le sue forme non sono forme, non si sa da dove derivino, ma sono flussi labirintici entro cui noi ci troviamo e in maniera disorientata riusciamo però a trovare un’armonia con noi stessi. È come se quei colori, quelle campiture, quelle traiettorie nervose cha hanno a che fare con le sue composizioni accompagnassero il nostro animo nel tentativo di spiegarlo a noi stessi. Mentre il tema che riguarda il tema dell’oltre è un interessante punto di vista su cui porre l’accento, perché quando noi parliamo della parola oltre sottintendiamo un concetto di limite, un qualcosa da valicare, attraversare per superare noi stessi, mentre lui quando crea questo genere di composizione in realtà dà un’alternativa al mondo sensibile, al mondo conosciuto. Ed è un’alternativa della mente entro cui immergerci con la sospensione di cui prima. Vuol dire validare la normale concezione delle cose attraverso una immersione totale in scenari post o pre-apocalittici, ma che sicuramente profumano di cosmico, di totale. Il limite non esiste c’è una dimensione della contemplazione.

“Un tempo era l’ingegneria”, che è anche uno dei titoli dei paragrafi, nel senso che là dove ci siamo posti che per soddisfare i nostri bisogni primari siamo ricorsi alla deterministica meccanicità del mondo, ecco che abbiamo inventato l’ingegneria per coprirci e l’architettura è l’evoluzione di questa cosa. Aggiungere il senso del bello alla necessità primordiale di sopravvivere. Ecco che Kool Koor racchiude nelle sue composizioni un qualcosa che profuma talmente di totale che può essere inteso sia come qualcosa di ingegneristico, di architettonico, di design e di artistico e quindi di istintivo allo stato puro. Una progettazione d’istinto perché ci fa rifugiare in cosmi che non esistono, ma che vanno a riparare le nostre ferite, le nostre crepe che sono però dell’emotività e non della ragione. È un delimitare dell’aldilà. Con Kool Koor si potrebbe parlare di un’estetica del fuori campo. Oltre cosa c’è? Cosa continua oltre questo scenario.”

In che cosa si può riconoscere l’influenza della Street Art nei suoi lavori.

“Lui solleva la questione della contenibilità della Street Art, che è una materia artistica, che nasce, si sviluppa e trova il suo compimento all’interno delle città. Città però vuol dire anche all’esterno, perché è materia che va fuori dalle nostre case e dalle nostre gallerie che sono destinate al fruitore esterno. Kool Korr è riuscito a riportare la materia dell’esterno del mondo non solo all’interno di una tela, ma anche di uno spazio finito. Permette a chi l’osserva di viaggiare all’esterno, in quell’oltre in quell’altrove pur restando all’interno di uno spazio fisico. Questo è possibile grazie all’immaginazione che queste opere per quanto finite si rendono infinitamente possibili. A differenza di Basquiat e Haring, dove tutta l’opera è incentrata sulla figura umana, in lui non c’è, c’è lo spazio dell’uomo, l’idea dell’uomo che non c’è. L’uomo è escluso dalle visioni di Kool Koor, ma ciò non vuol dire che non ci sia come pensiero. È la stessa cosa che accade in De Chirico. Ecco si potrebbe quasi fare un parallelo con De Chirico, che esclude nella sua metafisica il concetto di uomo ma lascia osservare le città che dovrebbero ospitarlo pur escludendolo. La stessa cosa accade nella “oltre fisica” di Kool Koor, per cui questi scenari intergalattici non contemplano l’uomo pur essendo destinati all’uomo. Sono scenari che fluttuano in un enigma di sospensione. È come se cercasse la scintilla che giace prima del Big Bang, quella scintilla da cui tutto nasce.”

Kool Koor Bio: Kool Koor ha iniziato il suo viaggio artistico a New York durante il boom dell’arte dei graffiti a metà degli anni 70 e all’inizio degli anni 80 esponeva le sue creazioni uniche in tutto il mondo al fianco di Haring e Basquiat. Le sue opere si trovano in collezioni museali come il Metropolitan Museum di New York, il Groningen Museum nei Paesi Bassi e il BAM in Belgio. Intenzionato a intraprendere la propria strada a metà degli anni 80, Kool Koor ha lasciato la scena dei graffiti di New York e ha scelto di esporre all’estero, esclusivamente in gallerie non incentrate sui graffiti o sulla street art. Ha avviato così un lungo elenco di progetti sorprendenti. Da vero visionario, Kool Koor continua ancora oggi a perfezionare la sua scrittura automatica e le metropoli futuristiche. Fidandosi del suo istinto, lascia che ogni tratto di penna e pennello lo guidi mentre acquisisce una costante conoscenza e crescita.

Kool Koor

Le creazioni di Kool Koor sono caratterizzate da aree contrastanti di estensione e compressione all’interno della tela. Su un piano di sfondo quasi monocromatico appaiono “geroglifici” ampiamente dettagliati costituiti da scanalature, cerchi, angoli, linee, ruote e archi. Presi singolarmente, scorrono come una calligrafia, somigliano a elementi urbani e architettonici: autostrade e incroci, ponti, cime di grattacieli e facciate di edifici addossati, come alghe sotto la corrente, in costante vibrazione, sia organica che meccanica. Viste da lontano, le tele sembrano finestre su un’altra dimensione: lo sfondo di neri opachi e metallici intrecciati è percepito come uno spazio universale infinito, in cui le entità interconnesse e intrecciate vanno alla deriva. Il luccicante bagliore argentato e dorato dell’inchiostro provoca una varietà di effetti, a seconda della posizione dell’osservatore. Il colore diventa più intenso guardando da vicino e si dissolve in una nebbia, se osservato da lontano. Kool Koor vuole che lo spettatore esplori e riceva stimoli sensoriali da tutti questi aspetti delle sue creazioni. Questo senso di libertà ci permette di scoprire all’infinito nuovi elementi all’interno della sua opera d’arte.

di Laura Fonovich

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