23.08.2022 – 20.24 – Fra la novità di un piatto di calamari fritti in Croazia che costa più che sulla riviera adriatica, o la delusione di un sushi in lenta consegna a casa (fra una bibita gasata e uno sfizio, picchia come una buona bistecca al sangue: una corsa alla speculazione da “recuperiamo il lockdown”, che fa tornare in mente il passaggio all’euro), la (tanta, dopo due anni) voglia di uscire dei triestini – sostituiti da un boom di stranieri che arrivano dai paesi dove il netto in busta paga è un po’ più alto del nostro – si è ridotta, e l’estate si avvia alla fine lasciandoci a bocca asciutta, senza quella spensieratezza da crisi finita che ci si augurava arrivasse. Al suo posto, mentre si guarda il mare da Boa, un misto di disillusione e paura per ciò che succederà quest’inverno: il timore più grande, quello che le elezioni di settembre finiscano in un ballo in maschera fatto di promesse e cambi di casacca. Un cambiar tutto per non cambiare niente, con bollette sempre più alte da pagare e banche che non sganciano un centesimo (l’aumento dei tassi di interesse, iniziato a maggio 2022, e a settembre ci sarà quello tecnico della BCE, toglie liquidità anche alle imprese e colpisce proprio chi ha chiesto un prestito per far fronte al caro energia: ora, specie se si è indebitato a tasso variabile e sono stati in molti, rischia – non c’è ancora emergenza, ma rischia). Diciamoci la verità: per quanto la vittoria, e di buona misura, della destra di Meloni, Salvini e Berlusconi sia molto probabile (e dall’altra parte c’è il solito “lui è peggio di me”, con poco condimento – solo salario minimo e stage retribuiti), pochi italiani, e ancora meno imprenditori, si aspettano che dalla politica arrivi presto una risposta concreta alla crisi energetica 2023.
Tutta l’Unione Europa è paese, e anche nei paesi limitrofi all’Unione c’è chi, pur non essendo, come Draghi, più al governo, sa che le famiglie e le fabbriche non hanno più soldi per pagare le bollette. Reagisce, però, in modo diverso, più concreto del nostro: Boris Johnson, poco prima di uscire dalla porta di servizio, ha preso, assieme al suo cancelliere Nadhim Zahawi (anglo-iracheno nato a Baghdad da genitori curdi, Zahawi, astro nascente dei conservatori, ha preso nel luglio di quest’anno l’importante incarico di ministro delle finanze del Regno Unito subentrando a Rishi Sunak), la decisione di co-finanziare la costruzione della stazione a energia nucleare di Sizewell C, in Suffolk. Un nuovo impianto da 3200 milioni di Watt con due reattori di terza generazione, di tipo EPR ad acqua pressurizzata (un progetto anglo-francese, EDF-Siemens), progettato proprio da EDF e China General Nuclear Power Group (in proporzione 80-20), società sanzionata da Donald Trump per rischi alla sicurezza USA, che si affianca a quelli esistenti. Un reattore di questo stesso tipo si trova, oltre che in Cina, a Olkiluoto, in Finlandia, e dovrebbe iniziare a immettere energia nella rete elettrica civile alla fine di quest’anno; si tratta di una tecnologia di questo millennio e non del secolo scorso, che garantisce una vita d’esercizio, per le centrali, di sessant’anni, ed è estremamente sicura. Con la sua decisione, che sembra aver preso senza dir niente a nessuno dei suoi altri ministri, e i trenta milioni di sterline di finanziamento, Johnson lega le mani anche a Liz Truss, falco della guerra Russia-Ucraina e ormai prossima inquilina più probabile del 10 di Downing Street, nonostante l’ultimo sondaggio dia quasi per certo un nuovo voto scozzese per uscire dal Regno Unito se lei verrà eletta primo ministro, e la battaglia con Sunak non sia ancora finita. L’Inghilterra, insomma, potenzia il nucleare, ritenuto vitale per la sicurezza energetica del paese: una decisione di principio, e di sostanza.
L’ombra della mannaia dell’energia, che è speculazione sì e senza dubbio (le compagnie fornitrici italiane hanno chiuso il 2021 con ricavi in aumento a due cifre, e prima che si dica che ricavo non vuol dire guadagno, staccano anche dividendi agli azionisti), ma anche problema concreto ed estremamente serio, gli italiani l’avevano già vista arrivare con la coda dell’occhio più di qualche anno fa: gli aumenti avevano già messo in difficoltà le fasce sociali più deboli, in aiuto delle quali il governo era già dovuto intervenire. La guerra in Ucraina ce l’ha però fatta arrivare sul collo. Al posto del gas russo, non abbiamo ancora, oggi, una strategia energetica chiara. Mario Draghi aveva identificato l’importazione di gas naturale liquefatto dagli Stati Uniti, generosamente offerto dal presidente americano Biden (in cambio del sostegno all’Ucraina) e sostenuto anche da Ursula von der Leyen, come punto cardine – ma è fantasia: a inizio giugno, nel terminal statunitense di Freeport, in Texas, un incendio di vaste proporzioni causato da sovrapressione in una linea di trasporto del gas liquefatto con immediato innesco ed esplosione del metano, ha provocato grossi danni (con emissione nell’ambiente di monossido di carbonio e biossido di zolfo) e ci ricorda di che tipo di materia prima energetica stiamo parlando. Sono bastati l’incendio a Freeport e lo stop alla piena disponibilità del suo impianto (fino a fine anno almeno) per causare forti tensioni su tutto il mercato di gas naturale liquefatto e un aumento dei prezzi, compresi quelli per l’Europa; e se l’energia diventa un’arma, è facile immaginare quanto vulnerabile possano essere, a un attacco, una nave gasiera o un impianto. Poco realistico sembra anche continuare a sperare di poter sostituire la Russia (con la quale, peraltro, abbiamo dei contratti, che non abbiamo disdetto) con altri fornitori entro il 2024, così come promesso da Roberto Cingolani, Ministro della transizione ecologica.
Il che ci lascia col cerino in mano (speriamo non per far luce), e due programmi elettorali per settembre. C’è quello del centrosinistra e leggiamo quello del Partito Democratico, incentrato, per quanto riguarda l’energia, sulla transizione ecologica e le rinnovabili (c’è però un però: non siamo affatto in una transizione, ma in piena crisi, con un ritorno al carbone). Per le rinnovabili il PD immagina un aumento drastico (85 Gigawatt entro il 2030) e che cita i 370 miliardi di dollari in programma per il clima e l’energia negli USA e l’obiettivo di taglio del 40 per cento delle emissioni entro il 2030 (obiettivo impossibile). Per il PD, i rigassificatori (e quindi le navi di Biden) sono ammissibili, ma solo come soluzione ponte, ed è necessario continuare a investire nell’energia pulita; il Parlamento Europeo ha rigettato, a inizio luglio, una mozione che si opponeva all’inclusione del gas e dell’energia nucleare fra le energie ritenute “pulite” e sostenibili, e quindi, per l’UE, il nucleare rientra appieno nella “transizione verde”, anche se a precise condizioni, compresi i nuovi impianti come quello che il governo del Regno Unito co-finanzierà e almeno fino al 2040 (ma probabilmente oltre) – questo però lo diciamo noi e non il PD nel suo programma. Sempre il PD vuole un fondo “anti-Nimby”, ovvero “anti-fattelo-tu-l’impianto-a-casa-tua-e-non-a-casa-mia”, che possa aiutare a superare lo stallo che da decenni blocca lo sviluppo di qualsiasi struttura che sia strategica per la nazione ma che qualche comitato di cittadini voglia bloccare: andrebbe alimentato anche con una quota versata dalle aziende che costruiscono infrastrutture in pubblico appalto, pare una buona idea. Il punto chiave sembra però un piano nazionale per il risparmio energetico con la tutela delle fasce deboli e debolissime: “bambole, non c’è una lira” e quindi si tira la cinghia (per contenere la crisi, però, avremmo bisogno di sviluppare, non di spostare la fibbia sul buco in meno). Non mancano i 500mila nuovi posti di lavoro in più derivanti dalle rinnovabili e dalle nuove comunità energetiche. Non manca la banda ultralarga.
Il centrodestra, nel suo programma, inizia da una necessità di revisione del Patto di stabilità, senza la quale, oggettivamente, un rilancio dell’economia italiana è molto difficile. C’è poi un richiamo allo sviluppo dell’Africa attraverso la cooperazione internazionale e naturalmente anche con l’Italia, e in questo non vedere proprio una volontà di avvicinarsi a un continente che sarà un importante attore di questo millennio, e che è ricco di materie prime (nel 2021, un solo impianto nigeriano, a Bonny Island, ha prodotto gas sufficiente al fabbisogno di metà del Regno Unito), sarebbe miope – serpeggia il rischio di un nuovo colonialismo, di fatto bisogna però ragionare in Realpolitik e il Kenya è già cinese. La destra italiana vuole una stretta sorveglianza sull’uso dei fondi PNRR anche in riferimento ai costi dell’energia e delle materie prime; vuole anche la banda ultralarga, e questo almeno è bipartisan. Per Fratelli D’Italia e Lega va incrementato l’uso delle risorse nazionali soprattutto per quanto riguarda il gas naturale; le rinnovabili vanno aumentate, la transizione energetica sostenibile non va persa di vista, e con chiarezza parla di necessità di ricorrere, per l’autosufficienza energetica, a impianti di ultima generazione, compreso (anche se c’è nel programma c’è un ‘valutando’, forse legato alla necessità di parlarne all’opinione pubblica con cautela e nel modo giusto) il nucleare pulito come quello del futuro nuovo impianto di Johnson (che non è affatto solo, si sono mosse appunto Finlandia, Turchia, Francia, Slovenia fra gli altri). I 500mila nuovi posti di lavoro nel programma del centrodestra per queste elezioni non ci sono – meglio così, Silvio Berlusconi ne aveva già promessi 1 milione e non sono arrivati. Sull’energia per i prossimi anni, insomma, destra e sinistra sono d’accordo sulle rinnovabili, con una differenza però non da poco – per la destra, le rinnovabili sono, con chiarezza, tutte quelle che l’Europa ha indicato compatibili con gli obiettivi di transizione. E, pur prevedendo la tutela delle fasce bisognose e delle imprese, non c’è come obiettivo quello di tirar di più la cinghia di un’economia già senza fiato, anche se miracoli è difficile aspettarseli, anzi non ce ne saranno. Attendiamo settembre.
[r.s.]