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Nucleare. Se la bolletta non è opinione e una politica UE comune ancora manca

07.10.2022 – 18.51 – Otto mesi di una guerra che ha proprio nel controllo dell’energia e delle risorse in Europa uno dei suoi focolai di fondo, e una crisi energetica senza precedenti, che colpisce come un maglio la classe media europea e ha fatto emergere speculazioni senza limiti, sulle quali l’UE di Von der Leyen non sembra capace di intervenire altrettanto incisivamente quanto sulle sanzioni contro la Russia (dalle nostre parti non si fa molto meglio e il tema presto sarà uno degli incubi di Giorgia Meloni). È una situazione inquietante, che non sembra esser stata capace però, finora, di disegnare una nuova politica energetica europea; i sabotaggi contro i gasdotti Nord Stream non sono, in fondo, che la ciliegina sulla torta (gli annunci pubblicitari di chi vende pastiglie di iodio sono le candeline). Il convitato di pietra è sempre lo stesso, e i paesi europei, timorosi delle loro opinioni pubbliche, non riescono a trovare la forza per invitarlo a tavola: l’energia nucleare.

Le nazioni UE con impianti nucleari sono tredici: Belgio, Bulgaria, Cechia, Finlandia, Francia (che con un cambio di rotta Macron-style ha annunciato la realizzazione di sei più otto nuovi reattori fra il 2028 e il 2050: ecco da chi compreremo), Germania, Olanda (due nuovi reattori), Romania, Slovacchia, Slovenia (potenziamento degli impianti esistenti), Spagna, Svezia e Ungheria. L’indipendenza energetica prima di subito, grazie al nucleare, è ora anche il desiderio della Polonia di Mateusz Morawiecki, che ha avviato un piano per la costruzione di sei nuovi reattori, il primo dei quali dovrebbe giungere a completamento entro il 2033 (numerosi analisti si sono messi a ridere, ma tant’è). Il nucleare, in Europa, si porta dietro un bagaglio di paure nate negli anni Ottanta e fortemente alimentate, dal punto di vista ideologico, dalle multinazionali dei combustibili fossili d’oltreoceano e del Medio oriente, per le quali l’indipendenza energetica europea è una prospettiva da incubo ormai da cinquant’anni. L’Italia rinunciò ai suoi impianti nucleari, allora fra i più avanzati del mondo, nel 1987 sull’onda della paura di Chernobyl, con in più un compiacimento esterno: la chiusura delle centrali civili metteva per sempre la parola fine al già interrotto (dieci anni prima) programma militare per un deterrente nucleare nazionale autonomo e indipendente. Negli anni Sessanta e Settanta, l’Italia si era trovata nella condizione di avere a disposizione reattori nucleari capaci di produrre anche materiale per bombe atomiche, e un numero rilevante di aerei capaci di trasportare ordigni tattici; aveva inoltre progettato e testato con successo un proprio missile balistico, l’Alfa, capace di raggiungere gran parte dell’Europa e Mosca. Oltre a essere indubbiamente costosa da un punto di vista economico per i governi di allora, l’indipendenza militare italiana non era gradita agli Stati Uniti, così l’Italia mise l’Alfa da parte (anzi fece confluire la sua tecnologia in un vettore spaziale) e scelse di dipendere per sempre, per la sua difesa, da altri. I timori nei confronti del nucleare, sul finire del 2010, sembravano essersi ridotti, poi ci fu Fukushima con la dispersione di radiazioni nell’atmosfera e nell’Oceano Pacifico e si tornò di corsa alla rinuncia al nucleare, pur trascurando di analizzare a fondo che cosa a Fukushima – colpita contemporaneamente da un terremoto e da uno tsunami di enormi proporzioni – era accaduto e perché.

Durante questi cinquant’anni trascorsi dagli anni Settanta, l’Europa, sull’energia, si è divisa ancor più di prima, con paesi che fanno del loro nucleare una componente insostituibile nel mix energetico considerandola fondamentale non solo per il futuro ma anche per l’ambiente, come la Svezia, e altri che lo ignorano pur essendo energeticamente molto poveri, come l’Italia o l’Irlanda. Il risultato è stato un calo, negli ultimi 15 anni (da Fukushima a oggi), del 25 per cento complessivo dell’elettricità europea prodotta dal nucleare e l’assenza, oggi, di un piano comune per un futuro sostenibile; la guerra in Ucraina non ha fatto altro che riportate l’atomo (purtroppo non solo in termini di usi pacifici) alla ribalta, sottolineando quanto sia necessario fare qualcosa per non ritrovarsi dipendenti esclusivamente dall’una o l’altra fonte energetica, dall’uno o l’altro paese nei decenni che verranno (per quello appena iniziato, è già troppo tardi), ma nient’altro. La guerra fra Russia e Ucraina ha rafforzato politiche già esistenti piuttosto che crearne di nuove: chi prima investiva già sul nucleare ha potenziato i suoi sforzi, chi non voleva sentirne parlare continua a non considerarlo. Pochi, forse più saggi come la Germania del ministro Robert Habeck, hanno scelto di rallentare di almeno altri nove mesi la dismissione della tecnologia nucleare che avevano già a disposizione, programmata per il 2022 (il Belgio è andato ancora più avanti ed ha esteso la data di chiusura dei suoi impianti nucleari al 2035, spegnendone pochi giorni fa solo uno). Sia l’ONU che l’UE hanno inserito il nucleare nei loro programmi di sviluppo di strategie energetiche che permettano il raggiungimento degli obiettivi sul clima e, anche se ciò non piace agli ambientalisti (non c’è più la paura di Chernobyl: il tema oggi sono le scorie), ciò è stato discusso anche al COP26 del 2021 con il raggiungimento di un consenso fra specialisti sull’opportunità di reinvestire nel nucleare.

Un nuovo rinascimento europeo, senza nucleare, non ci può essere, neppure se in Ucraina le armi tacciono. Nel breve termine, il nucleare può aiutare, questo è vero, molto poco, e non ci libererà in un attimo dalla crisi provocata dalla guerra, ma è cruciale per il domani. La necessità sempre più forte di provvedere ai fabbisogni industriali e civili potrebbe però, quella sì, creare già nei prossimi mesi, durante i quali le richieste d’energia non potranno che aumentare drasticamente e rapidamente, nuove tensioni in un’Europa a guida già disastrata e due velocità di tipo nuovo: quelle fra chi ha la corrente e chi invece non ne ha. E nel Regno Unito post Brexit già si parla di come trascorrere il tempo fra un blackout e l’altro (e allo stesso tempo si pianificano nuovi reattori). Sempre restando sul vecchio Continente, guardando fuori dall’Unione e a est, c’è un paese che di energia elettrica prodotta dal nucleare ne ha tanta: l’Ucraina. Ed ecco una delle ragioni, e non la minore per importanza, per le quali attorno a Zaporizhzhia si combatte non solo la guerra ‘calda’, ma anche quella della politica e dei media: sotto sotto, un gran punto di domanda che l’energia nucleare porta infatti non è solo quello rappresentato da scorie e i rischi, ma la dipendenza potenziale dai paesi che producono e raffinano uranio. Qualcosa che la Turchia, ad esempio, ha imparato a conoscere di prima mano: quel paese si chiama Russia, e non a caso finora le sanzioni europee l’industria nucleare russa non l’hanno toccata.

[r.s.]

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