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Omicidio colposo e ‘inquinamento acustico’. Lo strano caso del paziente e l’infermiera

10.09.2022 – 13.23 – A essere ucciso è un paziente ricoverato in ospedale. E la ragione della sua morte è tra le più assurde: un’infermiera (assieme a un collega), per non essere disturbata durante il turno notturno dai segnali d’allarme dei pazienti ricoverati in terapia intensiva, disattiva le suonerie. Finito il turno, l’infermiera se ne va a casa senza riattivare gli allarmi e un malato cardiopatico, colpito da crisi cardiaca, viene così soccorso troppo tardi e non sopravvive.
L’infermiera viene condannata per omicidio colposo, cioè per aver causato con la sua negligenza la morte del paziente. La donna si rivolge alla Corte di Cassazione e prova a difendersi. Non potendo negare di avere silenziato il reparto di terapia intensiva dell’ospedale, sostiene che non è sua la colpa del decesso. Ciò perché un medico aveva già proceduto “all’espianto del defibrillatore cardiaco impiantabile”, così rendendo in ogni caso impossibile salvare il paziente in crisi cardiaca. Secondo la donna, la crisi era avvenuta durante la mattinata, quando il reparto di terapia intensiva era congestionato. Pertanto, se anche l’allarme avesse suonato, i medici non avrebbero comunque fatto in tempo a intervenire, non potendo contare sul rimedio automatico che un defibrillatore impiantato avrebbe garantito.

giudici osservano subito come lo spegnimento degli impianti di allarme sia stato irrituale, non conforme alle prassi ospedaliere anche tenuto conto del fatto che l’infermiera aveva agito così per “scongiurare, durante la notte, quello che (la medesima) aveva definito inquinamento acustico”. La donna, assieme a un collega impegnato nel medesimo turno, aveva disattivato sia il servizio notturno di assistenza infermieristica, sia i campanelli dell’interfono che consentivano ai pazienti di collegarsi con gli infermieri di guardia, tanto che i malati, “per chiedere aiuto dovevano chiamare ad alta voce”. Peraltro, la disattivazione aveva reso non operativi sia il sistema di allarme acustico che quello visivo, (cosiddetto “allarme rosso”). A fine turno, i due infermieri non solo non provvedevano a riattivare il sistema d’allarme, ma dimenticavano anche di informare i colleghi del turno diurno. In modo corretto i giudici hanno ritenuto che lo spegnimento degli allarmi ha causato un ritardo nel soccorso al paziente, ritardo che è risultato fatale, causando il decesso del malato.

Ma un dubbio sulla colpevolezza dell’infermiera resta: se anche l’allarme avesse suonato e se i soccorsi fossero stati tempestivi, sarebbe stato possibile o impossibile salvare il paziente? L’infermiera si difende sostenendo che il malato sarebbe comunque inevitabilmente deceduto e i magistrati devono ora valutare se ciò sia vero o meno. Un’attenta analisi dell’accaduto quantifica in 13 minuti il ritardo con cui sono iniziate le manovre di soccorso. Un tempo assolutamente congruo affinché, in un reparto di terapia intensiva correttamente allarmato, l’intervento avesse “con elevatissima probabilità consentito… la sopravvivenza” del paziente. L’infermiera viene così definitamente condannata per omicidio colposo (Cass.pen. 1/2022)

di Guendal Cecovini Amigoni

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